Chimica e colorazione inversione di tendenza
Capi d’abbigliamento profumati di bucato o impregnati di polvere, piegati, ammassati, incastrati sotto pile smisurate, capi indossati e dimenticati, colpevoli di non rispondere più ai dettami di mode stagionali sempre più effimere. Dietro le ante di armadi strabordanti, i mille elementi del nostro guardaroba riposano insieme, certamente ignari del loro impatto sulla salute del pianeta. Se, come diceva Coco Chanel, “la moda non è qualcosa che esiste solo negli abiti ma è nel cielo, nella strada, la moda ha a che fare con il nostro modo di vivere e i nostri valori”, è chiaro che tra i valori cui si ispira la moda contemporanea manca quello della sostenibilità. Basti pensare che per produrre i 400 miliardi di metri quadrati di tessuto venduti ogni anno nel mondo, il settore tessile utilizza nove trillioni di litri d’acqua, di cui sei per il solo processo di colorazione, e impiega complessivamente oltre 8000 sostanze chimiche. Confezionare una semplice maglietta richiede più di 2500 litri d’acqua e una quantità di prodotti chimici che può variare dal 10 al 100% del peso del tessuto stesso: solventi e adesivi per la produzione del tessuto, saponi e sbiancanti per i pre-trattamenti, agenti fissanti, metalli pesanti e plastificanti per colorazione e stampa, ammorbidenti, siliconi, fluorocarburi (tra cui antimacchia, idrorepellenti e antimuffa) per la finitura.
Queste sostanze, molte delle quali altamente tossiche, in molti casi non vengono adeguatamente filtrate durante le fasi di lavorazione, finendo nelle falde acquifere e nei corsi d’acqua, avvelenando terreni agricoli, distruggendo interi ecosistemi. Non stupisce dunque che il tessile sia secondo solo al petrolio nella classifica delle industrie più inquinanti al mondo. E non stupisce nemmeno che, accanto all’agricoltura, sia il settore con maggiori responsabilità nel danneggiamento e sfruttamento delle risorse idriche: secondo recenti stime della Banca Mondiale produrrebbe il 20% dell’inquinamento idrico globale e, di tutte le fasi di lavorazione di un capo, quella della colorazione rappresenta senza dubbio la principale colpevole. A seconda del tessuto e del pigmento impiegato, infatti, i processi di candeggio e tintura possono arrivare a utilizzare una quantità d’acqua 50 volte superiore a quella del colorante stesso. A seguito della tintura, inoltre, circa il 10-40% di coloranti e sostanze chimiche, tra cui metalli pesanti come cadmio, mercurio e cromo, viene rilasciato nell’ambiente.
Coloranti naturali, coloranti artificiali
La maggior parte dei coloranti impiegati oggi dall’industria tessile è di origine sintetica: il primo ad essere sintetizzato fu un violetto brillante estratto dal catrame dal chimico inglese William Henry Perkin nel 1858 e, da allora, le tinture sintetiche hanno preso il sopravvento. Rispetto a quelle naturali, ottenute da radici, foglie o derivati animali, i vantaggi di questi materiali per l’industria sono molti: dai costi più contenuti alla maggiore uniformità di colorazione, dal fatto che non sbiadiscono nel tempo alla praticamente infinita gamma cromatica che offrono. Altro pregio di queste tinture è l’ottima affinità con le fibre tessili sintetiche di nuova generazione quali nylon, viscosa, poliestere. E così oggi alchifenoli, coloranti azoici e clorobenzeni, pur essendo sostanze bioaccumulanti, persistenti nell’ambiente e, in molti casi, tossiche per gli ecosistemi e per l’uomo, rappresentano oltre il 70% dei coloranti tessili. Ad oggi, un processo di colorazione a impatto ambientale nullo non esiste: anche l’applicazione di coloranti naturali, infatti, richiede l’aggiunta di sali metallici (per lo più sali di alluminio, cromo o potassio), che spesso finiscono negli scarichi.
Nel corso degli ultimi anni, l’industria si è prodigata nella ricerca di soluzioni innovative. La compagnia svizzera Archroma, ad esempio, ha brevettato il metodo “Earthcolors” che, senza ricorrere ad alcun additivo chimico, ricava pigmenti da materiali naturali di scarto come gusci di mandorle e nocciole. Dystar è invece un’impresa di Singapore che ha introdotto il primo colorante nero privo di metalli pesanti. Adidas ha recentemente sperimentato la tecnica “drydye”, che usa anidride carbonica compressa e pressurizzata come agente per disperdere il colore all’interno delle poliestere. La diffusione di queste tecnologie su vasta scala, tuttavia, è spesso limitata dai costi, che restano proibitivi. “Per produrre a basso impatto i costi posso aumentare anche del 30-40%”, dichiarava l’anno scorso a La Repubblica Roberto Pasini, presidente del consorzio Dye-staff che raduna tredici aziende dei coloranti per il tessile, la carta e il cuoio.
Le compagnie che sono riuscite a introdurre tecniche meno costose, solitamente riescono ad applicarle a una selezione ristretta di fibre tessili: è il caso di ColorZen, che ha modificato la struttura molecolare del cotone, permettendo una migliore adesione del colorante alla fibra. Paragonato a quelli tradizionale, questo processo permette di colorare fibre di cotone con un risparmio del 90% di acqua e il 75% di energia. Un altro esempio è quello di AirDye, una compagnia americana che disperde la tintura sul tessuto usando aria anziché acqua: questo metodo ha il vantaggio di far penetrare il colore fino all’interno della fibra, ma danneggia fibre naturali come lana e cotone.
Alcune proposte sono arrivate in passato anche dalla ricerca universitaria: nel 2013 uno studio congiunto delle università di Cambridge e Harvard ha preso ispirazione dal mondo naturale per creare un nuovo tipo di materiale. I ricercatori hanno riprodotto con particelle di lattice alcune strutture microscopiche, come quelle che si trovano sulle ali di certe farfalle o in alcune piante, in grado di conferire colorazioni sgargianti grazie all’interferenza con la luce. Queste strutture, applicate ai tessuti, rappresentano una valida alternativa ai coloranti chimici. Inoltre, essendo in grado di cambiare colore con la temperatura o la pressione, andrebbero a inserirsi in una nicchia di mercato cui altri tipi di tinture non possono accedere.
Di tutte le opzioni descritte finora, nessuna sembra però essere in grado di garantire costi contenuti, qualità, versatilità e ridotti consumi energetici.
Colorifix, una sfida al mercato dei coloranti tessili
Un’interessante alternativa che potrebbe cambiare le carte in tavola, viene da Cambridge, Regno Unito. Qui, nel gennaio scorso, nasce la piccola startup Colorifix: al momento tre soli dipendenti (che sono anche i soci fondatori), una piccola quota di autofinanziamenti, un brevetto in fase di approvazione e l’idea di rivoluzionare il settore tessile applicando alcune semplici leggi della biologia sintetica. Un’idea tanto audace e innovativa da meritare il prestigioso premio “Breaking New Ground” nella Bio-start competition che lo scorso 14 luglio ha premiato, a Londra, le migliori startup nell’ambito delle biotecnologie. “Tutto è nato da un progetto cui lavoravamo nel 2009, in collaborazione con l’Università di Edimburgo” spiega Orr Yarkoni, CEO di Colorifix. “Stavamo testando un biosensore per la rilevazione di arsenico nei corsi d’acqua di alcune regioni dell’India. Ci rendemmo presto conto che non c’era solo arsenico: le acque erano impregnate di ogni sorta di sostanza chimica. In breve tempo siamo risaliti alla fonte: gli scarti dei processi di colorazione delle vicine fabbriche tessili”.
I ricercatori decidono così di produrre colonie batteriche in grado di creare, con il minor impatto ambientale possibile, quegli stessi pigmenti utilizzati e poi dispersi nell’ambiente dall’industria. Il processo proposto da Colorifix è molto semplice: si individua un batterio in grado di produrre un certo pigmento, si estrae il gene responsabile della colorazione e si inserisce nel DNA di una coltura batterica appositamente creata dai ricercatori per ottimizzare la produzione del pigmento. “In questo modo possiamo produrre qualunque colore vedete in natura”, dichiara Yarkoni.
La coltura batterica finisce in un fermentatore, molto simile a quelli utilizzati per la produzione della birra: ogni mezz’ora il numero di batteri raddoppia, e con esso anche la quantità di pigmento prodotta. A questo punto, il tessuto da tingere viene immerso nella soluzione. Non è richiesto alcun processo preliminare di estrazione o purificazione del pigmento, che richiederebbe l’impiego di solventi, alte temperature e strumentazioni costose.
Grazie ai batteri, non serve nemmeno aggiungere le grandi quantità di sali metallici utilizzate in questa fase dall’industria tessile tradizionale: i batteri, infatti, estraggono naturalmente dall’acqua la quantità minima di questi sali necessari alla propria sopravvivenza, concentrandoli al loro interno. Sfruttando questo processo naturale, finiscono così per ottimizzare anche le condizioni di trasferimento del colore. “Il procedimento viene realizzato tra i 25 e i 37 gradi. Questo ci permette di risparmiare molta energia rispetto agli standard industriali, che utilizzano temperature comprese tra gli 85 e i 140 gradi, a seconda della fibra tessile” spiega Yarkoni. A colorazione avvenuta, il tessuto viene rimosso dal composto e riscaldato per rimuovere i microrganismi e fissare il colore. La scelta di riscaldare il solo tessuto e non tutto il composto contribuisce a ridurre ulteriormente l’impatto dell’intero processo.
“È una tecnica semplice, eravamo certi che qualcuno ci avesse già pensato” confessa Yarkoni, “ma a quanto pare non era così”. Oltre all’innovazione, Colorifix può offrire molti vantaggi all’industria: la validità del processo per qualsiasi tipo di fibra tessile, costi inferiori rispetto alle tecniche tradizionali, un consumo energetico inferiore del 20%, un’ampia gamma di pigmenti disponibili. Non solo. Se l’industria punta oggi a raggiungere un rapporto di uno a dieci tra il colorante e la quantità d’acqua utilizzata, Colorifix garantisce un rapporto di uno a tre. Sempre nell’ottica di ridurre il più possibile l’impatto ambientale, il processo produttivo garantisce una quantità di scarti chimici inferiori all’1% e non prevede l’utilizzo di metalli pesanti o altre sostanze tossiche.
Colorifix è consapevole che i numeri non bastano per riuscire a inserirsi sul mercato, e si sta dunque muovendo con una strategia ben precisa: partire dal mondo della moda, sempre alla ricerca di innovazione per i consumatori, per arrivare solo in un secondo momento all’industria tessile, notoriamente più avversa al rischio. “Adottare un nuovo processo produttivo significa investire in nuovi macchinari, bloccare un’intera catena di stabilimenti, fermare il personale che vi lavora: tutto questo comporta un’inevitabile perdita di denaro” spiega Yarkoni. “L’interesse del mondo della moda sarebbe garanzia di domanda, fondamentale per convincere gli industriali che si tratterebbe di un investimento redditizio, sostenibile e applicabile su larga scala. Solo così potremo avere accesso anche all’industria tessile più conservatrice, quella che ha effettivamente il potere di cambiare il sistema produttivo a livello globale”. Colorifix sembra avere tutte le carte in regola per diventare competitivo e rivoluzionare il settore in breve tempo, tutto dipenderà dalla disponibilità dell’industria e dei mercati a raccogliere la sfida.
Un sguardo al futuro
Cercare soluzioni innovative per modernizzare i processi della colorazione tessile è un passo importante, ma un’effettiva riduzione dell’impatto ambientale di questo settore richiede necessariamente azioni su più fronti: dalla ricerca di nuove materie prime ai trattamenti delle acque di scarico, dall’ottimizzazione dei processi alla sensibilizzazione dei consumatori.
Gli esempi virtuosi non mancano. Alcuni stilisti, tra cui Tom Cridland, hanno dichiarato di voler invertire la tendenza della cosidetta “fast-fashion”, producendo abiti che durino più a lungo nel tempo. Startup di nuova generazione utilizzano materiali di scarto o di riciclo per sviluppare tessuti e filati: è il caso del progetto italiano Orange Fiber, che sfrutta la cellulosa delle fibre dell’arancia per creare capi d’abbigliamento, o di Piñatex che produce un tessuto completamente naturale e biodegradabile con gli scarti della lavorazione industriale dell’ananas. Le strategie vanno chiaramente calibrate a seconda delle dimensioni e del potere economico delle industrie perché è evidente che, se le grandi aziende possono contare sulla propria sicurezza finanziaria per investire in costose tecnologie verdi, piccole e medie imprese vanno sostenute anche solo per mantenere gli standard normativi sull’inquinamento industriale. Ma tutto questo ancora non basta. Andrew Morgan, che nel 2015 ha diretto il documentario “The true cost” sull’impatto ambientale e sociale della moda usa e getta, non ha dubbi: “Nessuna soluzione funzionerà senza un diverso atteggiamento e una presa di coscienza dei consumatori”. Ed è in questa direzione che il mondo della moda dovrebbe muoversi.
Anna Lombardi – Galileo
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