Trump e le briciole del sogno americano
Trump non mi piace. Considero gli Stati Uniti la mia seconda patria. Non solo perché mi hanno insegnato a camminare, ma anche perché mi hanno indicato un nuovo orizzonte e mi hanno addestrato a vivere, quando a 8 anni, la prima volta che ci arrivai, nel 1977, e cominciai inconsciamente a sentire l’handicap, a capire ciò che ero e a confrontarmi drammaticamente con la mia realtà.
Avevo una terapista ebrea tedesca che mi diceva: “Devo insegnarti a cadere, perché tu possa rialzarti da solo”.
Ho vissuto nello spirito di questa America. L’altra mia terapista era una nobile tibetana a cui i cinesi maoisti avevano bruciato la casa, costretta a fuggire a Londra dove si era laureata brillantemente mi ammoniva con dolce fermezza: “La devi smettere di fare il Maharaja, quando vuoi una cosa, non chiedere sempre agli altri, se puoi, vai e prenditela. Fare, non dire, agire!”.
La mia nurse, in ospedale, era polacca e l’infermiere che mi preparò all’operazione era portoricano.
I tassisti che mi prendevano a bordo quasi ogni giorno, passando da Manhattan ad Harlem per arrivare al Medical Center University di New York, per la maggior parte erano neri, o asiatici, da loro ho imparato l’inglese e le prime parole di slang: “Good luck, boy, take care …!”.
Mi sbaglierò, ma ora questa America la sento lontana. Forse oggi non ha vinto la parte peggiore, ma certamente ha trionfato la pancia sul cervello, l’istinto sulla ragione, la paura sul coraggio.
Il sogno americano si abbarbica ormai su disillusioni aride. Le minoranze ispaniche e nere non hanno fatto la differenza a favore di Hillary Clinton perché anch’esse appaiono ripiegate e pavide nel loro cortile, che lasciano sporco negli angoli e spazzano a fatica.
Sicuramente, mi sarei turato il naso ed avrei votato Hillary Clinton, che ci ha messo del suo per perdere, con l’antipatia e con la spocchia della vecchia politica. A questo però non si può rispondere con l’avventurismo e il becerume di un tycoon da strapazzo.
Non so che tipo di presidente sarà Trump.
Anche Ronald Reagan, all’indomani della sua prima elezione, incuteva strani timori, poi si è rivelato un ottimo comandante in capo, come lo chiamano qui, al di là degli ultimi tempi in cui l’Alzheimer l’aveva assalito.
Molto dipenderà dallo staff di cui Trump si circonderà. Non bastano le nostre paure, se pur giustificate, a farcelo, aprioristicamente demonizzare. Le sue prossime mosse diranno molto.
Detto questo, una riflessione si impone. È all’interno del nostro orizzonte che la dobbiamo fare: siamo noi liberal che ci dobbiamo interrogare e ripensare in un mondo globale e globalizzato
Quando posso trascorro una parte dell’anno nel New Jersey, è un modo di osservare l’America profonda,
lo specchio convesso di una globalizzazione abortita, ma che ancora riesce ad essere percepita come la terra delle opportunità, dove la piccola e media borghesia di origine ispanica, si arrampica su possibilità e diventa la briciola di quel sogno americano, che ancora sopravvive.
Se non riusciremo, ad ogni livello, a dare risposte al malessere sociale, inglobandolo, in una seria logica di governo, guardando alle povertà e alla mancanza di prospettive morali ed effettuali, cadremo inevitabilmente vittime della nostra autoreferenzialità, condita dalla rabbia e dal rancore di un ceto medio che non riusciamo a intercettare e a capire, che si sente sempre più impoverito e abbandonato.
Bernie Sanders, in America, era un campanello d’allarme, andava ascoltato e magari coinvolto nei processi di cambiamento anche all’interno del Partito Democratico.
L’Italia avrebbe qualcosa da imparare dall’esempio americano, invece di scimmiottarlo nei suoi aspetti peggiori.
Donald Trump e Beppe Grillo, si somigliano molto più di quanto credano.
No, non è l’addio a un sogno, forse solo un arrivederci. Good Bye, America!
Michele Pacciano
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