Fragilità è il nostro nome
Un amico mi porge un paginone di Avvenire, del 23 agosto, con alcune riflessioni dello psichiatra Eugenio Borgna sulla fragilità. È un flauto pacificante la scrittura di questo appassionato esperto di umanità ferita.
In principio si staglia il celebre “pensiero” di Blaise Pascal sull’uomo, fragile canna ma pensante, che sa di morire mentre l’universo non lo sa.
All’istante ci sfilano davanti agli occhi gli spettacoli sia di fragilità sia di forza che costellano i giorni. I primi prevalgono ed è uno strazio. I secondi, per il loro disumano abuso, sono più insopportabili. Come fa un uomo o una donna a indossare la corazza della solidità e della sicurezza fino a esercitare prevaricazione sugli altri?
Accade di pensare con ammirazione agli eroi di Omero che, per quanto travolti da ira e violenza, non perdevano il sentimento della evanescenza propria e altrui.
Dov’è finita quella gloriosa lezione più che millenaria?
Ci vorrebbe forse un nuovo Leopardi per disporre un dialogo fra consapevoli vasi di creta e presunti vasi di ferro con una delle sue conclusioni sulla frallezza delle stirpi umane.
Eugenio Borgna si oppone ai luoghi comuni che argomentano contro la fragilità, quasi fosse “inutile e antiquata, immatura e malata, inconsistente e destituita di senso, estranea allo spirito del tempo […].”
Per lui invece è un’esperienza che adombra sensibilità e delicatezza, dignità e comunione con chi soffre. Adepto di una psichiatria “umana e gentile, psichiatria dell’interiorità” non considera la fragilità come un disturbo ma come una condizione di vita capace di produrre senso perfino quando compare nella follia.
Perfetto esempio di fragilità raccolto da ciascuno nell’infanzia è quello del bicchiere che si infrange cadendo a terra. Altre volte è caduto e l’abbiamo ripreso ancora intatto, ma giunge il giorno che non rimbalza indenne e cristallino e si riduce a un tappeto di frantumi.
Anche gli uomini e le donne si rompono. Le varie macellazioni di ognidove allineano fosse senza contabilità. Ma vi sono esistenze diversamente crepate e monche che continuano a sussistere. Ognuno provi a censirle attorno a sé.
Eugenio Borgna nell’ambito del suo mestiere – parola da innalzare perché viene dal latino “ministerium” equivalente a servizio – porta in specie la sua attenzione sulle emozioni fragili. Vede aureolate tristezza, timidezza, speranza, gioia e tenerezza. È il fulgore della fragilità che le cinge egualmente.
È vero, tutte le realtà più mondane le sono schierate contro. La tecnica, la finanza, gli arconti del tempo, gli istrioni, la satira e il grande animale sociale, come Simone Weil, memore di Platone, chiamava la massa allevata a suon di consumi e di aggiornati circensi.
L’ordine costituito aborre la fragilità. Se decenni fa Max Horkheimer dichiarava che “abbiamo tutti in comune un interesse originariamente umano, quello di creare un mondo nel quale la vita degli uomini sia più bella, più lunga, più affrancata dal dolore […] ”, oggi Eugenio Borgna sostiene che “a ciascuno di noi è demandato il compito di ricercare le tracce della gioia e della speranza, della tristezza dell’anima, nei volti e negli sguardi, negli occhi e nel sorriso delle persone che la vita ci fa incontrare”.
In sostanza il sogno che “tornino i volti” caldeggiato dal filosofo Italo Mancini, è l’auspicio che si impari ad ascoltare le “parole inespresse”. Vi sono fragilità del corpo e dell’anima che erompono all’esterno, ma vi è pure un umbratile e affondato deposito di sensibilità ulcerate che viene scorto solamente da coloro la cui attenzione appartiene all’ordine della grazia, per dirla ancora con Simone Weil.
Borgna da credibile maestro di ortoprassi ci scuote: “Recuperare il significato della fragilità, la sua complessità, e le sue metamorfosi, e riconoscerne le tracce negli altri è un dovere morale un servizio al quale siamo tutti chiamati”.
La lotta per l’esistenza ci mantiene in uno stato di febbrile mobilitazione permanente, ci richiede energia, ci trasforma in persone della conservazione, espelle i fragili, crea un vero deserto di indifferenza, l’universo concentrazionario dei cuori di pietra. Noi non vogliamo registrare la fragilità altrui, mal fronteggiamo quella annidata nelle nostre case. Sì, persino il famigerato familismo amorale è stato sconfitto da tale insopportazione. Infine non accettiamo la fragilità che fatalmente tocca a noi stessi, proprio a noi, quando alla forza subentra la debolezza e cade “la stanca man”.
Borgna esclude che le persone fragili siano capaci di fare del male. In realtà ne incontriamo non poche che gestiscono maliziosamente, occhiutamente e spietatamente quelli che hanno intorno, dimentichi di essere anche loro come la foglia di Arnault che va dove va ogni cosa, la foglia della rosa e la foglia dell’alloro.
La riflessione dell’illustre psichiatra si conclude con la citazione delle parole di s. Paolo nella Seconda lettera ai Corinzi 12,9-10. Lui, il Signore, ha detto all’apostolo: “Ti basta la mia grazia: la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”. Di questo perciò si vanterà sempre Paolo di Tarso arrivando appunto ad ammettere: “[…] Quando sono debole è allora che sono forte”.
Non posso non condividere questo approdo della riflessione dell’illustre psichiatra, a cui, comunque, per gli inevitabili spiriti forti, affiancherei la meditazione di Amleto – siamo in un anniversario del Bardo – sulla fossa e con in mano il cranio del buffone di corte Yorick.
Basilio Gavazzeni
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