Le speranze perdute dell’Ilva
Si sono appena spenti gli echi del primo maggio a Taranto, una festa del Lavoro vissuta in tono minore, più lacerato e disperante, al Sud come al Nord.
In 200mila hanno ballato e cantato al Concertone della capitale jonica, organizzato ormai da anni dal Comitato dei lavoratori liberi e pensanti, mentre al porto della Città dei due Mari si registrava l’ennesima morte sul lavoro, quasi a farsi beffa di una ricorrenza, che tra inni e danze cercava di conciliare lavoro e ambiente, salute, diritti e dignità.
Il caso Ilva è ancora una ferita aperta. A Taranto, nel Meridione e forse in Europa. A tutt’oggi appare difficilmente sanabile.
Possibile che non si riesca a trovare una linea mediana tra diritto al lavoro e diritto inalienabile alla salute?
L’Ilva il simbolo di una città dilaniata, che ha affidato il suo sviluppo alla monocultura della grande industria, che ora si trova ripiegata su se stessa, con la necessità e senza la capacità di suggerire soluzioni concrete ad un dramma individuale e collettivo che passa attraverso la vita di 55mila famiglie che sono la storia di un territorio, che sono il risultato di una politica spesso miope e collusa, su cui tutti, nessuno escluso, hanno chiuso gli occhi per troppo tempo.
L’Ilva è il prodotto di uno sviluppo asfittico e selvaggio che si è adagiato su una subcultura dell’appalto e del subappalto, che troppo spesso ha relegato la sicurezza sul lavoro a Cenerentola, subordinandola alla logica del profitto selvaggio e alla cannibalizzazione delle piccole e medie imprese, a loro volta vessate dai contratti capestro dei grandi gruppi industriali. Questo stato di cose, non ha certo favorito lo sviluppo, soffocando un indotto che ora appare sul lastrico.
È vero, a Taranto i bambini muoiono di tumore, a Taranto si continua a respirare diossina e amianto, ma fino a qualche tempo fa nessuno sembrava accorgersene, salvo qualche Cassandra ambientalista, o qualcuno interessato a far scoppiare bomba giudiziaria ad orologeria per fini non ancora del tutto chiariti.
Nessuno parla più della temeraria giudice Patrizia Todisco che anni fa fece scoppiare il bubbone.
Forse la colpa non è tutta dei Riva.
Certo, le responsabilità vanno individuate e perseguite come la magistratura sta facendo, ma il problema più grosso è ora dare risposte certe a quelle 55mila famiglie che attendono e annaspano un futuro.
Nessuno ha la bacchetta magica, illazioni e rumors si susseguono.
Cordate di imprenditori interessati a rilevare il più grande stabilimento dell’acciaio in Europa si aggregano e si disfano nel volgere di un mattino.
Adesso pare che anche il patron della Luxottica, Leonardo Del Vecchio, sia sinceramente orientato per un’offerta di acquisto.
L’ipotesi è allettante, ma che farà Del Vecchio con l’Ilva?
Quale sarà il nuovo piano industriale?
Quali saranno i nuovi assetti occupazionali?
Con quali prospettive reali?
Tutto appare nebuloso incerto. Le commesse non mancano, ma pare che nessuno voglia assumersi una responsabilità così grande.
Al di là delle tante occasioni mancate, sembra arrivato il momento di vederci chiaro.
Ancora una volta l’Ilva è la cartina di tornasole per interpretare equilibri economici e politici che si consumano al di là e sulle teste di lavoratori e degli abitanti, che vengono usati e strattonati, volenti o nolenti dal prestigiatore di turno.
Chiunque voglia speculare e intorpidire le acque, agita sempre comunque la spada di Damocle del ricatto occupazionale.
In questo gioco al massacro i lavoratori diventano sempre più le pedine inconsapevoli di una partita più grande che si gioca su altri tavoli, che non risiedono solo Taranto.
A Taranto anche le pecore sono morte di diossina.
Tutta la zona occidentale del territorio e i paesi limitrofi della provincia ionica ne sanno qualcosa. In questa catastrofe sono coinvolto personalmente, ho uno zio morto di amianto in quella che un tempo si chiamava Italsider.
E il Mondo sta a guardare.
Forse siamo troppo lontani dai grandi centri di potere, forse siamo solo funzionali a un nuovo disegno, che non capiamo.
L’Europa, come al solito, rimane alla finestra e aspetta, incapace di esprimere una posizione chiara e una voce univoca.
Non so se l’Ilva sia stata una cattedrale nel deserto, vittima e carnefice di se stessa. Oggi è certamente il monumento ad una città caduta, che stenta a rialzarsi e ritrovare se stessa.
Nessuno si ricorda più, il presidente del Consiglio Lamberto Dini favorì per due lire l’acquisto del gigante addormentato a favore di suo cognato Emilio Riva.
Non si vuol fare dietrologia, vox populi, vox dei: l’Ilva è sempre stato un grosso carrozzone politico, a cui tutti si sono rifocillati e da cui tutti, grandi e piccoli, sono passati all’incasso.
Quelli che oggi invocano, giustamente, l’emergenza ambientale devono altrettanto giustamente confrontarsi con l’emergenza lavoro e non rifugiarsi in riconversioni utopiche.
È inutile dibattersi tra un ambientalismo estremo alla Peter Pan è un capitalismo becero e ottocentesco, che guarda solo alle ragioni del mercato.
L’Ilva langue e con lei tutto il Sud.
55mila famiglie si arrampicano ogni giorno in una difficile sopravvivenza, ci si nutre di rabbia e di rassegnazione.
Si va incontro al tempo senza avere un futuro: una bomba sociale potrebbe scoppiare da un momento all’altro, ma come sempre nessuno l’ascolta, nessuno ricorda i nomi dei morti per l’amianto, dei bambini stroncati dal tumore o dalla diossina.
E Taranto, annaspa. Senza vedere più il sole.
Michele Pacciano
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