Baluginìo della storia su Papa Bergoglio
Il gesuita Giovanni Arledler, scrittore della Civiltà Cattolica, in un recente articolo su “Umberto Eco e i Gesuiti “riferisce anche della “bustina di Minerva”, ora in “Pape Satàn Aleppe”, in cui il Maestro alessandrino compendia la minima fenomenologia di una faccia del poliedro Jorge Mario Bergoglio.
Eco si chiede: “ Chi è Papa Bergoglio?” e risponde: “Credo che si sbagli a considerarlo un gesuita argentino: è un gesuita paraguaiano”.
Un’agudeza che spiega rifacendosi alla storia delle Riduzioni dei Gesuiti nel Paraguay, la cui tragica conclusione Fritz Hochwälder tradusse nel dramma “Sacro Esperimento” e Ronald Joffé nel film “Mission” ispirato al romanzo di Robert Bolt.
I Gesuiti, alla stregua del domenicano Bartolomeo Las Casas, riconoscevano la dignità umana delle popolazioni delle Nuove Indie che erano trattate come bestie dai conquistadores intesi alla predazione, e provarono a organizzarle secondo il modello delle prime comunità cristiane.
Le ragioni di Stato della Spagna e del Portogallo, incrociandosi, le stroncarono, dopo aver bandito i missionari gesuiti, di cui poi soppressero l’Ordine.
Da quella singolare e gloriosa esperienza che meritò l’apprezzamento di Muratori e Montesquieu, proviene il “baluginìo della storia” che Umberto Eco scorge nell’azione di Papa Francesco.
In questi giorni un paginone dell’Osservatore Romano può essere considerato una riprova di quel riflesso, riportando la lunga lettera al cardinale Marc Ouellet, in cui il Pontefice raccoglie e approfondisce le riflessioni scaturite dall’assemblea plenaria della Pontificia Commissione per l’America Latina, presieduta dal porporato e convocata lo scorso marzo, sul tema dell’impegno dei laici nella vita pubblica.
Fra le colonne del documento è incastonata la riproduzione di un affresco di Maximino Cerezo Barredo per la chiesa rurale di Coclecito, a Panama, che raffigura un popolo in cammino verso la mandorla di luce di una Madonna, sotto uno striscione: “Iglesia que es Pueblo, Pueblo que es Iglesia”.
È davvero la sintesi della riflessione ancora una volta performativa di Papa Francesco che, dopo aver ascoltato i partecipanti, mette in azione le sue potenti direttive.
Performativa?
Certo, perché volge con decisione al mutamento della prassi, senza indulgere a ignave speculazioni. Ma, nello stesso tempo, quanto partecipe, quanto memore, quanto supplice!
L’immagine “orizzonte” preposta a questo gioiello pastorale è appunto “il Santo Popolo fedele di Dio”, il gregge immenso di cui gli stessi pastori sono parte.
Per anni si è straripetuto lo slogan che “è l’ora dei laici”.
Al Papa sembra invece che “l’orologio si sia fermato”.
Bergoglio osserva che nel Popolo di Dio tutti siamo entrati laici, ricevendo nel battesimo l’unzione dello Spirito Santo.
“Nessuno è stato battezzato prete né vescovo”.
La Chiesa non è una élite di gerarchi ma tutti formiamo il Santo Popolo fedele di Dio.
L’autentica ecclesiologia del Concilio Vaticano II celebra “la dignità e la libertà dei figli di Dio, nel cuore dei quali dimora lo Spirito Santo come in un tempio” (“Lumen gentium”, n. 9).
Il clericalismo, “una delle deformazioni più grandi che l’America Latina deve affrontare”, non discende dal Concilio, annulla le personalità dei credenti, spregia lo Spirito Santo del Battesimo, omologa i laici, li tratta da mandatari, ne limita le iniziative e le audacie necessarie per incarnare il Vangelo nella società e soprattutto nella politica, spegne il fuoco profetico, sequestra la visibilità e la sacramentalità del Santo Popolo fedele di Dio, per riservarla ad alcuni eletti.
Papa Francesco ritiene che uno dei pochi spazi scampati dal clericalismo è la pastorale popolare, che ha i suoi limiti e non è scevra da varie deformazioni, ma è così ricca di valori che Paolo VI, scrivendone splendidamente nell’esortazione apostolica “Evangelii nuntiandi”, la definisce “pietà popolare”, religione del popolo piuttosto che religiosità.
Se ben ascoltata e orientata ci manifesta una genuina presenza dello Spirito Santo che non è solo “proprietà” della gerarchia ecclesiale. Papa Bergoglio adotta la pastorale popolare “come chiave ermeneutica” per capire il Santo Popolo fedele di Dio che prega e agisce.
Dal quale, senza che trascuri la sfera intima della persona, sorge una cultura: “una cultura popolare evangelizzata che contiene valori di fede e di solidarietà che possono provocare lo sviluppo di una società più giusta e credente, e possiede una sapienza peculiare che bisogna saper riconoscere con uno sguardo colmo di gratitudine” (“Evangelii gaudium”, n. 68).
Gettate queste fondamenta, il Papa chiede che cosa significhi il fatto che i laici stiano lavorando nella vita pubblica.
Evoca le città ridotte a luoghi di sopravvivenza, dove vige la cultura dello scarto e stenta la speranza, dove nostri fratelli cercano di sopravvivere, lottano e, ancora, cercano il Signore e gli rendono testimonianza.
I pastori siano pronti a incoraggiare, accompagnare, stimolare i tentativi e gli sforzi già in atto per avvivare la speranza e la fede, pur fra contraddizione e ingiustizie, specialmente per e con i più poveri.
Uno sguardo contemplativo, nonostante tutto, scopre che Dio “vive tra i cittadini, promuovendo la solidarietà, la fraternità, il desiderio di bene, di verità, di giustizia”.
Il pastore, incorrotto, rispetti la competenza del laico. “Senza rendercene conto, abbiamo generato una élite laicale credendo che sono laici impegnati solo quelli che lavorano in cose “dei preti”, e abbiamo dimenticato, trascurandolo, il credente che molte volte brucia la sua speranza nella lotta quotidiana per vivere la fede”.
Franco e incandescente, il Papa riconosce che il laico ha bisogno di nuove forme di organizzazione e celebrazione della fede.
Insiste perché i pastori non pensino di avere il monopolio delle soluzioni per le molteplici sfide dei nostri giorni e perché condividano con la gente “dove sta e con chi sta” l’inculturazione della fede che meglio le si addice.
Termina incitando a custodire nel Santo Popolo fedele di Dio la memoria di Gesù Cristo e degli antenati dai quali abbiamo ricevuto la fede, e chiedendo alla Vergine Santa di sostenere, “come ha fatto con la prima comunità, la fede del nostro popolo”.
Ascoltare e leggere le parole di Papa Bergoglio proteso in una pastorale centrata su Gesù Cristo e creativa, ci toglie alla scontentezza e alla miserabilità. Un momento di ordine perfetto, vittorioso contro la mediocrità. Ci inebriano i suo manifesti di amore, bellezza e libertà. Una cura per rimanere fraterni, operosi e con la schiena dritta. Gesuita paraguaiano, il Papa? Passi, e per cogliere l’occasione di una preghiera per la cara anima di Umberto Eco, e per riverberare un frammento del magistero con cui Papa Bergoglio persegue il programma di disincagliare da ogni subalternità la fisionomia dell’uomo dentro la sua gente.
Basilio Gavazzeni
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