Il barometro invisibile
Si avvicinano le amministrative di giugno. La politica naviga a vista, nessuno sembra in grado di individuare e costruire un orizzonte.
Si agisce per bande, per gruppi disgregati e disorganizzati, sparsi e spersi. Ma quello che fa più male, nel disinteresse generale, nessuno si occupa più di sociale, salvo qualche bordata di retorica, populista, o buonista che dir si voglia.
Sono le due facce di una stessa medaglia, i lati estremi di un disagio latente.
Di fronte a un ceto medio, sempre più impoverito e sfiduciato, di fronte all’insorgere di vecchie e nuove povertà, non siamo capaci di dare risposte.
Impotenti, ci ripieghiamo su noi stessi e tiriamo a campare, fingendo di non vedere.
Sì, i nuovi poveri non si vedono.
Nelle realtà grandi e piccole, sempre più gente si rivolge alla Caritas per un pasto, o un pacco viveri, qualcuno si spinge a frugare nei cassonetti, ma lo fa di notte, o di mattina presto, nel timore dignitoso di essere visto.
Neanche il ricco Nordest è più un’isola felice: qui gli esclusi sono soprattutto giovani, ma anche ex operai, immigrati, ex piccoli imprenditori, schiacciati da una vita, o da un sistema economico che non regge più.
Nei loro occhi non c’è più posto per la speranza, solo disillusione, frustrazione, nel migliore dei casi rabbia sorda e dignità silente, che a volte lascia il posto alla disperazione e alla reazione anche violenta.
Se vuoi conoscere le storie del sommerso, non basta andare in Comune, o nei municipi delle Megalopoli.
Nell’Italia che non c’è, che non si vede, forse l’unico presidio sociale rimane la parrocchia, le organizzazioni di volontariato, ma non basta.
L’assenza delle Istituzioni si trincera dietro il “Si fa quel che si può”, spesso delega troppo al terzo settore, al privato sociale, al volontarismo. E poi magari, quando ci si organizza e diventa un business, si arriva a Mafiacapitale.
Dov’è la speranza? Dove ritrovarla?
Non mi piace parlare di me.
Ho fatto errori, le scelte vincenti.
Guardo il mondo di una carrozzina e lo racconto.
A volte detesto l’handicap, a volte mi riconduce all’essenzialità delle cose.
Non sono un paladino, mi sforzo solo di fare il mio mestiere quello di giornalista.
20 anni fa per lavorare con la mia tetraparesi ho fatto decurtare la pensione e non me ne pento. Sono invalido però tutto sommato mi sento fortunato, faccio quello che mi piace che da’ senso alla mia vita, ma ogni giorno la mia bonomia borghese si scontra con la dura realtà, la disperazione di genitori di bambini autistici o spastici che si sentono soli e abbandonati da uno Stato che non c’è, che non hanno voce neanche più per gridare.
Ma comunque vanno avanti in una quotidiana battaglia d’amore.
In loro e nei volontari che illuminano la notte delle città, lì trovo la mia personale speranza.
A loro, e alle tante persone laiche e religiose che nel silenzio si rimboccano le maniche e lavorano per gli altri, cercherò sempre di dar voce.
Questo non è il migliore dei mondi possibili, ma noi possiamo migliorarlo.
Migliorando.
Non ci sono ricette.
Forse il riscatto è solo nel cuore di ognuno, nel barometro invisibile della coscienza, nel coraggio e nella capacità di rimettersi in gioco, di guardare oltre noi stessi e ricominciare a camminare.
Il cambiamento è in noi e ricomincia da noi, da tutti e da ognuno.
La politica, se vuole ritrovare se stessa, dovrà tenerne conto. Ma dubito che lo farà.
Le città che vogliamo, non sono un sogno.
Diventiamo adulti, cominciamo a sognare la realtà.
E a costruirla, insieme.
Michele Pacciano
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