In Iran 80 esecuzioni di pena di morte al mese
Tra Iran e Israele è guerra. Dopo l’attacco israeliano del 13 giugno ai siti di arricchimento dell’uranio e a postazioni militari strategiche nei dintorni di Teheran, l’Iran ha risposto lanciando centinaia di missili e droni contro il territorio israeliano.
La crisi ha segnato un punto di non ritorno nei già tesi rapporti tra i due Paesi, riaccendendo anche il dibattito sul sistema politico iraniano. Ma l’Iran è davvero un regime?
La risposta può arrivare dai dati, soprattutto su un fronte che più di altri rivela la natura autoritaria di uno Stato: il numero di condannati alla pena di morte.
Secondo il rapporto Death Sentences and Executions 2024 – Amnesty International Global Report, l’Iran ha eseguito almeno 972 condanne a morte nel 2024, con una media di 2,66 al giorno.
È il dato più alto registrato nel Paese dal 2015 e segna un aumento del 14% rispetto all’anno precedente, quando le esecuzioni erano state almeno 853.
Più della metà delle persone messe a morte nel 2024 era stata condannata per reati legati alla droga, a conferma dell’uso sistematico e sproporzionato della pena capitale anche per crimini che non rientrano tra i più gravi secondo il diritto internazionale.
Il dato conferma una tendenza inquietante: nel 2022 erano state 576, nel 2021 appena 314. Come si vede anche dal grafico, in soli tre anni, il numero delle esecuzioni è triplicato.
L’Iran ha così totalizzato il 64% di tutte le esecuzioni conosciute nel mondo nel 2024, mantenendo un tasso di ricorso alla pena capitale che non ha eguali (se si esclude la Cina, dove i dati restano segreti).
Nel 2024 l’Iran ha eseguito 972 condanne a morte. Di queste, 505 riguardavano reati legati alla droga, pari al 51,96% del totale.
Le esecuzioni per omicidio sono state 142, il 14,61%, mentre 127 persone – cioè il 13,06% – sono state messe a morte per reati classificati come “contro Dio” o “contro lo Stato”, tra cui moharebeh (ostilità contro Dio) ed efsad-e fel-arz (corruzione sulla Terra).
Queste imputazioni sono spesso utilizzate contro manifestanti e oppositori politici, in processi che non rispettano gli standard internazionali di equità e trasparenza.
Nel 2024 le autorità iraniane hanno continuato a utilizzare i tribunali rivoluzionari e altre corti speciali, che violano sistematicamente le garanzie procedurali.
In molti casi, i giudici hanno emesso condanne a morte negando agli imputati un processo equo e un reale diritto di appello.
I tribunali hanno spesso celebrato le udienze a porte chiuse, impedendo la presenza di avvocati indipendenti.
Le autorità hanno quasi sempre eseguito le condanne mediante impiccagione.
A testimoniare la durezza del regime iraniano emergono anche dati che evidenziano una particolare attenzione repressiva verso le donne.
Nel 2024 almeno 30 donne sono state giustiziate, segno di un’applicazione della pena capitale che non fa distinzione di genere e che, anzi, negli ultimi anni ha colpito con maggiore insistenza figure femminili.
Le proteste nate dopo la morte di Mahsa Amini hanno mostrato quanto forte possa essere la mobilitazione delle donne nel Paese, e proprio questa forza sembra rappresentare una delle minacce più temute dal potere.
Alle esecuzioni avvenute in carcere si aggiungono almeno 4 esecuzioni pubbliche, utilizzate come strumento di intimidazione collettiva.
Un uso della pena di morte che non si limita alla punizione individuale, ma assume una valenza dimostrativa, diretta a rafforzare il controllo sociale attraverso la paura.
L’Iran non ferma l’uso della pena di morte neppure davanti ai minorenni.
Sebbene il Paese abbia ratificato la Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia, che vieta esplicitamente di giustiziare persone per reati commessi prima dei 18 anni, nel 2024 le autorità hanno giustiziato almeno 5 individui arrestati da minorenni.
A fine anno, le autorità tenevano ancora almeno 84 detenuti nel braccio della morte per reati compiuti durante l’adolescenza, e avevano trasferito circa 15 di loro in carceri per adulti al raggiungimento della maggiore età.
I tribunali rivoluzionari o penali hanno emesso molte di queste condanne senza garantire un processo equo, spesso basandosi su confessioni ottenute sotto tortura.
Un caso emblematico è quello di Mehdi Jahanpour: le autorità lo hanno arrestato a 16 anni e lo hanno giustiziato a 22.
Il suo caso ha attirato l’attenzione della comunità internazionale a causa delle gravi violazioni dei diritti procedurali e dell’età dell’imputato al momento del reato.
Secondo i dati dell’organizzazione Iran Human Rights (IHRNGO), dal 2010 il regime iraniano ha giustiziato almeno 71 persone per reati commessi da minorenni.
Questo dato continua a mettere il sistema giudiziario iraniano in contrasto con gli standard internazionali sui diritti umani.
L’aumento delle esecuzioni, comprese quelle di persone arrestate da minorenni, si inserisce in un contesto politico e sociale ben preciso.
All’origine di questa escalation c’è la repressione dell’ondata di proteste scoppiate in Iran dopo la morte di Mahsa Amini, la ventiduenne arrestata e colpita a morte dalla polizia morale di Teheran per non aver indossato correttamente il velo islamico. Era il 16 settembre 2022.
Da quel momento il Paese è stato attraversato da manifestazioni diffuse, guidate soprattutto da giovani e studenti, sotto lo slogan “Donna, Vita, Libertà”.
La risposta delle autorità è stata durissima. Centinaia di studenti e studentesse sono stati arrestati, insieme ad almeno 130 difensori dei diritti umani, 19 avvocati, 38 giornalisti e 36 attivisti politici.
Tra questi anche la blogger italiana Alessia Piperno, incarcerata nel famigerato carcere di Evin (lo stesso in cui è stat reclusa la giornalista Cecilia Sala) per aver documentato le proteste.
È stata liberata solo dopo oltre un mese, il 10 novembre 2022, grazie a un’azione diplomatica della Farnesina.
L’uso della pena di morte nei confronti dei più giovani, compresi i minorenni all’epoca dei fatti, si è trasformato in uno strumento di intimidazione collettiva per soffocare il dissenso.
La repressione iraniana ha colpito in modo mirato le fasce più giovani della popolazione, concentrandosi sugli ambienti scolastici, che diffondono idee critiche e stimolano la mobilitazione sociale.
Dopo l’inizio delle proteste seguite alla morte di Mahsa Amini, gli apparati del regime hanno preso di mira in particolare le scuole femminili, colpendole con un’ondata sistematica di attacchi.
A partire da novembre 2022, numerose organizzazioni umanitarie hanno documentato avvelenamenti di studentesse tramite gas o sostanze tossiche.
Fino al 2023, queste organizzazioni hanno contato oltre 300 attacchi in più di 100 istituti scolastici femminili presenti in diverse province del Paese.
Gli avvelenamenti hanno ucciso almeno 69 studentesse per insufficienza respiratoria e causato sintomi da intossicazione a oltre 13.000 ragazze, con gradi diversi di gravità.
Tra i casi più discussi c’è quello di una bambina di 11 anni morta dopo un attacco nella sua scuola a Qom, nel febbraio 2023.
L’episodio ha scatenato un’ampia indignazione internazionale e ha spinto il Parlamento europeo ad approvare, il 16 marzo 2023, una risoluzione che chiede di inserire il Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche (i Pasdaran) nella lista delle organizzazioni terroristiche.
I deputati hanno approvato la risoluzione con 598 voti favorevoli, 9 contrari e 31 astenuti, condannando apertamente le pratiche repressive imposte dal regime iraniano.
Una condanna che trova nuovi riscontri anche negli sviluppi più recenti: nel contesto dell’attuale escalation tra Iran e Israele, le forze israeliane hanno condotto attacchi mirati ed eliminato diversi alti ufficiali dei Pasdaran.
Israele attribuisce a questi comandanti la responsabilità della strategia di repressione interna e del sostegno militare ai gruppi armati attivi nella regione.
Anche sul piano militare, questo rappresenta un segnale della crescente pressione internazionale su uno degli apparati più influenti e controversi del regime di Teheran.
I dati si riferiscono al: 2024 Fonti: Amnesty International, Iran Human Rights
Niccolò Rejetti
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