Se la maestra insegna odio e violenza siamo al capolinea

La maestra Lavinia Flavia Cassaro
Per alcuni secondi proviamo ad immaginare nella classe di Lavinia Flavia Cassaro la presenza di qualche bambino o bambina figlio di un poliziotto, di un carabiniere o di un finanziere. Come si sentirebbe il giovanottello o la signorinella?
Figlio di quegli stessi uomini ai quali, con una bottiglia di birra in mano, la maestra ha ripetutamente sbraitato con odio ed isterismo, con lo sguardo feroce tipo br anni 70-80 “vigliacchi, mi fate schifo, dovete morire”.
Successivamente individuata la divisa che le calzava meglio è passata alla seconda persona singolare “mezza cartuccia del c…, vergognati schifoso”.
Quanti ipotizzano che la Cassaro sia stata vittima della tensione e della foga devono ricredersi perché dopo al cospetto del microfono di Angelo Macchiavello, inviato di Mediaset per ‘Matrix’, ha rimarcato e raddoppiato “non ho detto niente di sbagliato, in questo momento stanno proteggendo il fascismo, e io potrei trovarmi un fucile in mano a lottare contro questi individui”.

La ferita del poliziotto durante gli scontri alle manifestazioni di Torino
La sua democrazia, il suo senso di libertà le suggerisce di imbracciare un fucile e lottare (con la speranza che in classe simili insegnamenti non li abbia mai pronunciati).
Lottare, e magari premere il grilletto, contro lavoratori e dipendenti dello Stato che vengono retribuiti per difendere tutti, ivi inclusa Lavinia Flavia Cassaro assidua frequentatrice dei centri sociali torinesi.
Più che una democratica e una battagliera la si può tranquillamente definire una maestra di odio e di violenza.
La Cassaro e tutte le altre combriccole ultrarosse hanno deciso che CasaPound e Forza Nuova sono organizzazioni fasciste e razziste e quindi sono da eliminare. La magistratura ed il ministero dell’Interno (nell’ultimo quinquennio ininterrottamente gestito dal Pd) non si sono mai espressi, ma per gli ultrarossi sono partiti da mettere al muro.

Lavinia Flavia Cassaro
Fascismo morto e sepolto oltre 70 anni fa, che né la Cassaro, e probabilmente neppure i suoi genitori hanno conosciuto, ma che diventa un’ottima scusa per distogliere la mente dalle preoccupazioni concrete del Paese.
Inventare un falso problema per non affrontare il vero problema.
Sono stati scritti decine di articoli e commenti sulla pasionaria seminatrice di odio dei centri sociali, ci hanno pensato anche due ragazzini a prendere carta e penna e a indirizzarle quattro righe che, di certo, le ha lette ma le sono scivolate di dosso.
Una lettera l’ha scritta la figlia di un poliziotto e tra l’altro riporta “Tu che gli urli dovete morire. Vedi, ogni volta che mio padre si allaccia gli anfibi e si chiude il cinturone ho davvero paura che qualcuno lo faccia morire. Forse tu non sai cosa vuol dire vivere di turni, vivere di imprevisti, di compleanni in cui nelle foto ci sono tutti: tranne lui. Del pranzo di Natale che diventava freddo a forza di aspettarlo. Del cuscino vuoto accanto a mia madre. Del freddo, del sonno, del sangue sulla strada, degli insulti che gente come te ogni giorno rivolge a chi indossa una divisa.

Gli ultrarossi che lottano contro il fascismo
Tu sai che mentre auguravi a quei ragazzi la morte a casa c’erano i loro bambini, che si erano appena addormentati, che si aspettavano di vedere i loro papà il giorno dopo come tutti i giorni? Lo sai che c’erano madri, mogli e fidanzate che in quel preciso momento stavano pensando a loro? E stavano pensando se magari potevano avere troppo freddo là fuori? Non sono mostri come li dipingete, ma sono persone. Le stesse persone che chiamate a tutte le ore se avete bisogno di aiuto, e loro, anche se gli augurate la morte, vengono ad aiutarvi: perché hanno giurato di esserci, e quella divisa che tanto odiate rappresenta anche questo. Ora, vai e guarda negli occhi tuo padre e tuo marito-compagno-fidanzato che sia (se ne hai uno), guardali negli occhi e cerca solo di immaginare cosa si possa provare a sapere che tanta gente come te augura la morte a quegli uomini che per noi sono la vita”.
Un’altra lettera gliel’ha inviata Michele Fezzuoglio, di 12 anni. Il padre Donato nel 2006 nel tentativo di sventare una rapina ad Umbertide, Perugia, venne ucciso nel conflitto a fuoco con i banditi, gesto per il quale fu decorato con la Medaglia d’Oro al Valor Militare.
Michele vive con la madre a Bella, un paesino nei pressi di Potenza.
“Buonasera, prof. mi chiamo Michele, non le nascondo che sono un po’ arrabbiato con lei. Oggi le faccio conoscere qualcosa di me e del posto dove vivo. Vorrei mai più manifestazioni che incitano alla violenza, chi parla dovrebbe evitare parole che uccidono quanto quel proiettile di kalashnikov sparato alle spalle di quel carabiniere che per me voleva un mondo a colori. In questa casa ci abito con la mamma, la osservi, sopra quel mobile c’è un berretto, lo stesso che era sopra la bara avvolta nel tricolore il giorno del funerale di mio padre. Guardi quante foto, attestati ed encomi, sono tutti di mio padre, li ha ricevuti sia in vita che dopo. Senta anche che silenzio, se ci fosse stato papà sarebbe stata una casa rumorosa, avrei avuto un fratello o una sorella o entrambi. Basta, prof. la lascio tornare a casa, nel tragitto rifletta della lezione noiosa. Quando è arrivata, guardi negli occhi suo padre e lo abbracci. Intanto io scrivo al ministro, non per farla punire, ma per darle dei consigli. Arrivederci prof., buon rientro”.
Se tra gli alunni della maestra Cassaro ci fossero stati Michele Fezzuoglio e la figlia del poliziotto, avrebbe avuto il coraggio di guardarli negli occhi e di sorridere?
Bruno Galante
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